Un mito greco bellissimo, che nei secoli ha ispirato la fantasia di pittori, poeti e musicisti...
I boschi della Tracia erano in festa, un corteo nuziale percorreva i sentieri erbosi. Tutta la natura salutava gli sposi: la sposa era Euridice, una ninfa; lo sposo era Orfeo, un bel giovane, pronipote del dio Apollo.
La sposa, col capo coperto, si lasciava condurre per mano da una compagna, altre la seguivano con fiaccole accese.
Lo sposo apriva il corteo suonando la lira, che il dio Mercurio gli aveva costruito mettendo insieme un guscio di tartaruga, due corna di gazzella e sei tendini di bue.Toccando con impareggiabile maestria le corde, Orfeo otteneva dallo strumento un’armonia dolcissima, che incantava le creature del bosco.
All’improvviso, una piccola nuvola nera, passando davanti al sole, oscurò il bosco. Per un istante le ninfe rimasero in silenzio, la gioia della festa fu turbata da un triste presagio. Anche la musica di Orfeo divenne accorata.
Sempre condotta per mano dalla compagna, la sposa calpestò una vipera in un ciuffo d’erba. Fu un istante, il rettile alzò il capo e morse il piede che l’opprimeva. La fanciulla diede un grido acuto e si accasciò fra le braccia delle compagne. Orfeo depose la lire ed accorse. Ma, con gli occhi chiusi, la fanciulla sembrava non udire i pianti delle compagne né i richiami disperati dello sposo. L’agonia fu breve. Abbandonata dalla vita, Euridice fu inghiottita dal mondo dei morti.
Orfeo non si rassegnò alla sciagura e cominciò ad invocare la sposa con un canto triste e insieme dolcissimo. A sentirlo la natura si fermava incantata: il vento taceva e le acque dei fiumi si fermavano.
Sempre lamentandosi e cantando, di bosco in bosco, di valle in valle Orfeo arrivò all’ingresso oscuro del sotterraneo e tenebroso mondo di Plutone.
Il giovane vi entrò senza paura e senza interrompere il suo canto. E con un lungo cammino giunse alla porta degli Inferi. Cerbero avvertì la presenza di un uomo vivo, ma il canto di Orfeo lo ammansì: il feroce guardiano dell’aldilà s’accucciò mugolando.
Passato l’ingresso, Orfeo arrivò alle sponde di una nera palude. Gli si fece incontro Caronte con la sua barca e, vedendo che era vivo, lo scacciò col remo. Ma Orfeo levò il suo canto, e Caronte lo lasciò passare.
Alla fine il giovane giunse davanti al trono di Plutone e lo implorò:
- Signore di questo immenso mondo sotterraneo, non sono venuto a spiare con occhi indiscreti i segreti degli Inferi, cerco la mia Euridice, che mi è stata rapita sposa, nel fiore degli anni. So che sulla terra molti mariti piangono le loro mogli, immaturamente scomparse; so che a tante mamme la morte strappa dalle braccia i figli appena nati; so che tanti bimbi restano orfani prima ancora d’aver imparato a parlare. E tutti si rassegnano al potere della morte. Ma a me ha proibito la rassegnazione il dio Amore, che è molto potente lassù, nel mondo dei viventi. Perciò ti prego: restituiscimi Euridice. Non te la chiedo per sempre. Un giorno, quando avrà compiuto il corso dei suoi anni, tornerà quaggiù; e con lei verrò anch’io. Chiedo soltanto che le sia concesso d’invecchiare assieme a me, nella mia casa. Se invece le leggi di questo regno ti vietano di esaudire la mia preghiera, allora prendi anche me in questi tenebrosi silenzi, dove spero di vedere almeno l’ombra di Euridice.
Plutone rispose:
- Il tuo canto, Orfeo, mi persuade a violare per la prima volta le leggi di questo regno. Mai alcun mortale è tornato di qui a rivedere la luce del giorno. Invece tu potrai condurre tra i vivi la tua Euridice. Ad una condizione: né tu né lei dovrete voltarvi indietro fin che, usciti dalla valle infernale, non avrete rivisto la luce del giorno.
Gli sposi presero a salire per un sentiero ripido, oscuro e tortuoso. Avanti procedeva Orfeo, cauto e attento, dietro lo seguiva Euridice.
Non mancava molto al regno della luce, quando Orfeo, forse temendo che Euridice non lo seguisse, le rivolse uno sguardo amoroso. Un attimo.
La fanciulla poté appena sussurrare: – Addio! – e ripiombò per sempre nel regno di Plutone.
Invano Orfeo la chiamò, ella non poté più emergere dal mondo sotterraneo delle ombre.
L’infelice sposo tornò sui monti della Tracia e per tutta la vita cantò la sua amata sposa, morta due volte.
Là dove egli si sedeva piangendo e cantando, si raccoglievano gli alberi a portare frescura e conforto. Veniva il pioppo, veniva l’alloro, venivano il tenero tiglio e l’alto faggio.
Un giorno una lacrima cadde sul pendio d’un monte pietroso. Ne nacque un albero nuovo, mai visto prima: fu l’albero del pianto e del ricordo.
E’ sacro a Plutone.
Oggi è chiamato cipresso.